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Intreccio di racconti Brani da riordinare per costruire una nuova storia |
Così si erano ritrovate per una consulenza... ed un caffè insieme, da sorseggiare sul balconcino di casa sua.
Già, il balconcino... Quello era stato molto più di un balconcino.
In realtà esso veniva definito anche il terrazzo o il terrazzino.
A ripensarci veniva pure un po' da sorridere, ma quanto aveva contato quel piccolo palco sul mondo!
A lungo era rimasto chiuso in se stesso.
Il desiderio di tornare da ……. era irresistibile, il continuo pensiero di tornare da lei a farsi lenire le ferite gli bruciava così intensamente che gli scavavano sempre più nel profondo. Ma non volle.
Sapeva che l’essere vigliacco non lo avrebbe certo dipinto di rosa ai suoi occhi.
Voleva ancora tentare di riuscire da solo. Doveva riuscirci!
Anche se c’era in qualche modo abituata, vagò ancora estasiata sui bellissimi lampadari che pendevano dagli alti soffitti.
L'affascinavano. La ipnotizzavano letteralmente.
Le fitte ghirlande di gocce di cristallo creavano un'atmosfera magica intorno a quelle che sembravano vere e proprie candele dalle fiammelle tremolanti.
Quelle corolle così leggere, così fragili e tenere, a volte impalpabili nella loro inconsistenza, gli sembravano, però, imprevedibilmente volitive, coraggiose, tenaci. Non sembravano temere i pesantissimi calabroni che flettevano bruscamente i loro steli, fin quasi a toccare il terreno.
Sembravano intuitivamente sapere, nel mutuo scambio, che quei calabroni avevano bisogno del loro nettare per cui, pur irruenti ed affrettati, non potevano nuocere loro in alcun modo.
Ed ogni volta, mentre le guardava, a lei sembrava di entrare in un sogno.
Sospirò, si sistemò meglio sulla poltroncina girevole, accavallò le gambe e si raddrizzò sullo schienale quanto più le fu possibile.
Quindi aprì le dita e sfiorò i tasti immaginari di un pianoforte, accarezzando lievemente il bordo della scrivania.
Il pensiero della riunione che doveva organizzare per la settimana successiva tornò in primo piano.
Doveva ancora contattare due o tre persone per avere la conferma della loro presenza a Strasburgo quel giorno.
La musica andava e andava. La folla sorridente ne scandiva il tempo con le mani.
Si raddrizzò nuovamente in posa plastica e riprese a muovere anche le braccia, in una specie di danza che tuttavia non seguiva il ritmo.
E andava, andava e andava. O meglio, galleggiava e galleggiava, sotto la piccola spinta preoccupata impressa dalle mani su cui le capitava di appoggiare i graziosi piedini.
Sdraiato sul terriccio riarso a ridosso del muretto di cinta, giocherellava con una pagliuzza ingiallita, bucherellando la foglia ancora verde che teneva nell’altra mano.
Allungò pigramente una gamba e si fece un po’ più a vicino all’albero, per guadagnare ancora l’opportuno riquadro di ombra, appena appena frastagliata di sole.
Solo a quel punto realizzò come, in fondo, quella staticità quasi religiosa dell’aria, dei suoni, della vita, non fosse che un’immobilità più apparente che reale.
N.B.
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