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Ricordi Scuola 23 - La lingua straniera o L2








I miei primi due anni nella scuola in cui ero finalmente approdata erano stati impegnati nell’insegnamento di discipline antropologiche e, soprattutto, nel costruire un grande rapporto con gli alunni.

Così, ero in classe terza quando mi trovai a dover lasciare quell’area d'intervento, che mi coinvolgeva per undici ore settimanali in ognuna delle due sezioni, per essere inserita nel ruolo di insegnante di lingua straniera di tutta la scuola.

L’allontanamento da quegli alunni ai quali avevo dedicato tanto entusiasmo e tante energie e con i quali ancora oggi ho un legame particolare, fu comunque abbastanza morbido, perché continuai a vederli per tre ore a settimana in qualità di insegnante di Inglese, mantenendo tutte le dinamiche positive messe in atto, anzi sviluppandole ulteriormente.

D'altro canto l’entusiasmo di tutti i ragazzi della scuola salì alle stelle per le novità arrecate dalla lingua straniera.  Ed anche il mio e quello dei genitori.
Infatti, per la prima volta, alle elementari si affrontava quella nuova disciplina che offriva molti spunti di allegria e divertimento per alunni e insegnante e grandi aspettative per le famiglie e il territorio.

Per sei intensissimi anni ebbi il piacere di conoscere tutti i ragazzi in età scolare del paese.
Entrando ogni anno in contatto con gli alunni delle classi terze, ben presto tutti i bambini, dico tutti, transitarono nella mia bellissima aula attrezzata.

Inutile aggiungere che entrai in contatto con tutti i team e tutti gli insegnanti della scuola, così pure con tutti i genitori e, perché no con qualche nonno.

Ho sentito spesso dire come sia impossibile relazionarsi con un così gran numero di discenti, docenti e genitori. Moltissimo nel mio segmento scolastico, ma in un modo senza possibilità d’appello nella scuola secondaria.
Sulla stessa linea sarebbe impossibile curare un programmazione approfondita, interdisciplinare, integrata.
Tutto questo non è stato vero per me.

Cercai fin dall’inizio di stabilire relazioni costruttive e professionali con i singoli e con i team-docenti, certa che fosse possibile lavorare insieme per migliorare la scuola e condurla su un piano più moderno in generale e psico-pedagogico e didattico in particolare.

Non è sempre stato facile e, in qualche caso, è stato davvero difficile superare il pregiudizio e la paura del nuovo.
Da quel momento in poi, tuttavia, il più delle volte sono riuscita ad incidere sulle abitudini, sulla sicurezza del già fatto, sulla paura di essere violati nella propria sfera d’azione e, infine, a farmi accettare con il mio mondo di ideali e la mia sospetta voglia di fare.

Per quanto riguarda alunni e genitori li ho conosciuti in modo profondo e proficuo, pur avendo tre sole ore settimanali di intervento.
Posso affermare con tutta certezza che forse potrei aver dimenticato un nome, ma ancora oggi ricordo emozioni, interessi, abilità di tutti quei ragazzi, ormai divenuti uomini e donne, che ripensano con grande gioia ai tre intensi anni passati a giocare con me.

Per i genitori, poi, sono stata un sostegno, spesso un supporto fondamentale in situazioni di difficoltà specifiche o di conflitto con la scuola.
Si ricordano volentieri di me e, quando ci incontriamo, leggo nei loro occhi simpatia, stima e affetto.
Per una venuta da fuori, direi non male come risultato!

E veniamo ora alla didattica vera e propria e alle cose salienti realizzate nell’ambito dell’insegnamento della lingua straniera.

Alla base della mia programmazione ci fu sempre la scelta convinta di lavorare con un approccio metodologico comunicativo, che privilegiava il comprendere e il comunicare in situazioni significative, quanto più possibile simili a quelle reali in cui una persona possa trovarsi nella vita.

E’ noto come gli Italiani abbiano sempre trovato difficoltoso comprendere l’Inglese ed esprimersi con un sufficiente grado di precisione, buona pronuncia ed intonazione corretta in questa lingua.
Questo è da ascriversi all’eccessiva proposta di lingua scritta, alla dominanza della letteratura ed all’impronta grammaticale e sintattica dello studio proposto dalle scuole italiane.

Per fare un passo avanti era necessario un bilinguismo precoce, in quell’età particolarmente versata all’apprendimento linguistico, insistendo sulle abilità orali del comprendere e dell’esprimersi, che sono le prime a comparire nella vita e nello sviluppo del bambino.
Per mantenere vivo l’interesse era anche indispensabile che la situazione esperienziale avesse realmente uno scopo comunicativo.

Dunque, armata del tanto materiale che avevo raccolto, mi misi a studiare in quale modo proporre l’apprendimento anche di quello più semplice, come fossimo in una situazione naturale.

Tanto per fare un esempio, sviluppare la funzione comunicativa “salutare e presentarsi”, che implica di per sé stessa lessico e strutture linguistiche piuttosto semplici, richiedeva di introdurre gradualmente gli alunni nella routine di classe. L’insegnante salutava gli alunni all’arrivo e al termine della giornata scolastica in L2 e solo con il costante uso della lingua in questo contesto per i ragazzi si andava chiarendo la differenza tra il salutare la maestra o un loro pari, distinguere tra il momento dell’arrivo da quello dell’allontanamento, adeguarsi ai momenti specifici della giornata.

Così ciò che sembrava tanto facile in apparenza,  richiedeva invece un costante uso in situazione della lingua e del materiale linguistico che ne consolidasse l’acquisizione.




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